Solidarietà a Lubna Ahmed Al Hussein

Il 5 luglio scorso a Karthoum in Sudan la polizia ha fatto irruzione in un ristorante e ha arrestato 13 donne perché indossavano pantaloni in un luogo pubblico.
Dopo due giorni di detenzione, 10 sono state riconosciute colpevoli di atti osceni e punite con 10 frustate e una multa di circa 100 dollari, tra queste
una ragazza di 16 anni e due di 17.

Lubna Ahmed Al Hussein e altre due donne invece hanno ricevuto il perdono presidenziale per evitare al governo problemi di natura internazionale.

Lubna Ahmed Al Hussein una delle perdonate lo ha rifiutato dando, inoltre, le dimissioni dal suo lavoro alla missione delle Nazioni Unite in Sudan, per non beneficiare dell’immunità a disposizione dei membri dello staff Onu, e poiché desidera essere processata come cittadina sudanese.

Lubna Ahmed Al Hussein, giornalista, aveva scritto sull’uso della legge per perseguitare le donne che, nella maggior parte dei casi, non protestano per paura di essere condannate.

Al fine di dare massimo risalto al problema la Hussein ha deciso di farsi processare per fare pressione per l’abrogazione di questa legge che ammette che le donne siano fustigate per aver indossato “abiti immorali o indecenti … (che) causano l’indignazione dell’opinione pubblica”. Una legge, che ammette fino a 40 frustate oltre alla multa in denaro e che può avere ampia interpretazione da parte della polizia, e che porta ad arresti arbitrari e persecuzioni.

Lubna Ahmed Al Hussein è apparsa davanti alla corte due volte, supportata da più di 50 sostenitrici.

Molte indossavano pantaloni in suo sostegno e in opposizione alla legge. Un’ulteriore udienza è fissata per il 7 settembre.

La violazione sistematica dei diritti delle donne a causa di questa legge è stata portata alla luce grazie all’istanza di Lubna Ahmed Al Hussein, che Amnesty International considera un’attivista dei diritti umani.

Per manifestare la tua solidarietà a Lubna Ahmed Al Hussein firma subito l’appello su Amnesty International

Censura per Videocracy di Erik Gandini

Videocracy è un documentario di Erik Gandini il quale sostiene la tesi che i guasti alla nostra democrazia, li avrebbe prodotti, non l’insipienza e la cattiva coscienza di una classe politica in prevalenza di sinistra e centro-sinistra che non ha avuto il coraggio e l’onestà di fare i conti con la storia, alla caduta del muro di Berlino, quanto piuttosto la nascita e l’affermarsi della TV commerciale, che con trentanni di fanciulle scosciate, giovanotti palestrati, e quiz milionari avrebbe obnubilato i cervelli e prodotto una sorta di mutazione genetica degli italiani.

Piccola notazione, in America, la nascita e l’affermarsi della TV commerciale, in tempi assai più remoti che in Italia, non ha impedito la nascita di un forte movimento di opposizione alla guerra nel Vietnam, le dimissioni di Richard Nixon, l’ elezione di Carter, Clinton e ora di Obama.

Mi sa che i conti di Erik Gandini non tornano affatto.

Allora perchè pubblicare il trailer di un prodotto che sostiene una tesi che non si apprezza particolarmente?

Il fatto è (si tratti o meno di una trovata pubblicitaria per sfruttare il WEB come nuovo canale pubblicitario), che è stata rifiutata da parte della RAI alla Fandango, la casa distributrice del documentario la messa in onda del trailer per “l’inequivocabile messaggio politico di critica al governo”, in poche parole un caso di censura inammissibile in un paese nel quale la costituzione non prevede limiti alla libertà tantomeno nell’ espressione di critiche al governo.

Crimini d’agosto: da Palermo il racconto di Titì

In ospedale una dei cinque eritrei scampata al mare
«Donne incinte sul barcone Le ho viste abortire e morire»
Titi la sopravvissuta racconta

PALERMO — «A bordo c’erano anche tre donne incinte. Due di loro prima di morire hanno perduto il bambino che portavano in grembo, hanno abortito per la fame, la sete e la sofferenza di un viaggio terrificante durato 21 giorni». Parla un inglese stentato Titi Tazrar, 27 anni, eritrea, unica donna sopravvissuta alla trage­dia nel Canale di Sicilia. Ma lo strazio di quelle compagne di viaggio che coltivavano la speranza di una vita migliore soprattutto per le creature che portavano in grembo lo racconta anche a gesti. Alza a fatica la testa dal cuscino e muove le mani dall’alto in basso, sfiorandosi il ventre come a dar forma all’orrore di quei feti che vengono via dall’utero materno. Un gesto che fa calare il silenzio tra medici e infermieri dell’ospedale Cervello di Palermo dove ieri è arrivata in elicottero assieme a un altro connazionale di 24 anni, Halligam Tissfaraly, che se ne sta raggomitolato tenendosi il braccio teso alla flebo.

Anche Titi è visibilmente provata, ma sgrana gli occhi e quasi si dispera quando non riesce a farsi capire. «A bordo non avevamo praticamente nulla — racconta — solo qualche bottiglia d’acqua, pochissimo cibo e neanche un telefono per lanciare l’allarme. Alla partenza eravamo 78, in gran parte eritrei ma anche etiopi e nigeriani. Di alcuni ci accorgevamo che erano morti perché durante la notte cadevano direttamente in mare, altri li abbiamo dovuti abbandonare noi. Le donne incinte sono quelle che più hanno sofferto, noi non sapevamo come assisterle e consolarle. Ma poco dopo aver perso il bambino sono morte anche loro».

E poi dà la sua versione sulla controversa questione dei soccorsi maltesi. «Ci hanno dato cibo, acqua e della benzina ma ci hanno lasciati in mare. Anche un’altra imbarcazione si è accostata per darci cibo e acqua. Nessuno però ci ha preso a bordo». Si fa evasiva di fronte alla domanda diret­ta se sono stati loro a rifiutare il trasbordo sulle imbarcazioni che hanno fornito i viveri. Insiste: «Ci hanno dato solo acqua e cibo, mentre altre navi non si sono neppure avvicinate. Noi ci sbracciavamo, gridavamo, chiedevamo aiuto ma loro facevano finta di non vederci». Per Titi il trasferimento in ospedale si è reso necessario per le sue precarie condizioni di salute («si riprenderà presto» assicurano i medici).

Dietro la sua attuale fragilità si intravede un’abitudine alla sofferenza che è stata determinante per resistere 21 giorni in balia del mare. Forse quel che resta della vita militare a cui era destinata. In Eritrea frequentava quella che lei chiama «accademia militare » e che forse è proprio la durissima «Sawa» dove le donne subiscono ogni tipo di violenza. «Era una vita che non mi piaceva — si limita a dire lei — volevo e voglio una vita diversa ». Titi non è sposata e non ha figli. Nel suo Paese ha lasciato la madre, un fratello e una sorella che lavorano in un’azienda agricola e dice di non aver pagato nulla per il viaggio: «A pagare per me è stato mio zio materno, ma non so quanto abbia versato ». Sa benissimo invece quanto ha dovuto penare prima di arrivare al tanto atteso viaggio della speranza in Italia: «Un anno e otto mesi ho dovuto aspettare prima dell’imbarco— racconta — restando a lungo in Sudan e poi diversi mesi in Libia».

Non parla o preferisce tenerle per sé storie di violenze in Eritrea e durante il cammino verso l’Italia, ma illumina la stanza col suo gran sorriso quando si accenna al futuro: «Ho chiesto asilo politico — scandisce— sono partita perché volevo venire in Italia. Non in Germania o Francia ma in Italia. Voglio restare qui. Sono disposta a fare qualunque tipo di lavoro ma voglio finalmente una vita migliore ».

Alfio Sciacca per il corriere.it

A Salemi Vladimir Luxuria presenta il suo libro “Le favole non dette”

Martedì 25 agosto alle ore 20.30, nell’atrio del Castello Normanno Svevo di Salemi, Vladimir Luxuria presenterà il suo libro “Le favole non dette”, nel quale, tramite i protagonisti delle fiabe, racconta cosa significhi sentire il bisogno di trasformarsi e, per questo, dover affrontare pregiudizi e discriminazioni.
Dice Luxuria: “sta passando l’idea non solo di picchiare, filmare e far sentire criminalizzato chi è diverso, ma di farne un trofeo mettendolo su internet. Vorrei far capire che il nostro non è un capriccio, abbiamo le nostre sofferenze e i nostri sogni”.
Scritto “non con il linguaggio della politica, ma toccando le corde dell’emozione”, “Le favole non dette” sono sei storie, sei fiabe della diversità, sei “bambini” tra magia e cemento, tra favola e pregiudizio, amore e indifferenza, per raccontare a tutti, giovani e adulti, l’infinito mistero dell’uomo.
Il festival della letteratura, “Ammirazioni”, nell’ambito del quale si svolge la presentazione, si ricollega al capolavoro di Emil Cioran “Esercizi di Ammirazione” (1986), in quanto secondo le parole del Sindaco di Salemi, Vittorio Sgarbi, “la letteratura produce ammirazione. Sentire qualcuno parlare non è altro che ammirare le sue parole”.
“Ammirare è un esercizio importante. Dovremmo esser capaci di ammirare fino ai nostri più grandi nemici” secondo Oliviero Toscani, Assessore alla Creatività.
La serata sarà accompagnata dal clarinetto del grande jazzista siciliano Nicola Giammarinaro.

Nella 4×100 c’era Usain Bolt, ma c’era anche Emanuele Di Gregorio

Nella finale mondiale della 4×100 maschile di Berlino 2009 c’era la squadra giamaicana con Bolt e Powell, ma c’era anche la squadra italiana con il castellammarese Emanuele Di Gregorio, Collio, Cerruti e Donati.

Hanno vinto i giamaicani con 37,31 e l’Italia è stata sesta con 38,54, ma per l’Italia è stata già una vittoria esserci.

Grazie Emanuele !

Scherzi da suore

Ma da quelle parti lì non si era sostenitori della famiglia ?

Maestra si sposa e perde il lavoro – Lo viene a sapere dai genitori

Si sposa, la scuola dove lavora la licenzia. Succede nella scuola paritaria dell’infanzia “Sant’Anna” di Grosseto, dove Federica Gentili si è ritrovata di fatto “licenziata” causa matrimonio. La vicenda ha del grottesco, e l’insegnante interessata è letteralmente caduta dalle nuvole quando ha saputo la notizia: non lavorerà più in quella scuola, dal momento che ha deciso di sposarsi.

La vicenda viene raccontata sul quotidiano “La Nazione”. Secondo il resoconto del giornale, la suora coordinatrice della scuola, dopo aver saputo delle nozze, ha comunicato la sua decisione ai genitori dei bambini: “Con molto rammarico” ha scritto in una lettera indirizzata alle famiglie “devo annunciarvi che la maestra Federica Gentili non insegnerà più nella nostra scuola perchè si sposa”. L’insegnante era ignara di tutto e pronta a riprendere servizio dopo il suo matrimonio. Mai avrebbe creduto che la decisione di sposarsi le costasse… il posto di lavoro. Tanto più che la notizia della decisione della scuola l’avrebbe appresa non dai suoi responsabili ma da uno dei genitori dei suoi bambini.

“Non riesco a capacitarmi” ha detto, ancora incredula, a “La Nazione”. “Mai uno screzio con la responsabile, con i colleghi, con i genitori. Amo il mio lavoro e voglio continuarlo. Adoro i bambini e non mi rassegno a perdere il mio posto. Se ce ne fosse stata la necessità, sarei pronta a rinunciare al viaggio di nozze pur di non lasciare la classe. Proprio non riesco a capire”. Dall’istituto replicano che ormai la decisione è stata presa e che da settembre la maestra Federica sarà sostituita.

Intanto all’insegnante non mancano le dimostrazioni di affetto e solidarietà. Dall’istituto fanno sapere che la coordinatrice tornerà a settembre. La maestra ha comunque chiesto e ottenuto un colloquio con il vescovo di Grosseto, Franco Agostinelli, a cui ha raccontato il caso e spiegato le sue ragioni. In città non si esclude che un intervento del capo della Curia grossetana possa far tornare le suore sulla loro decisione e chiudere un caso che ha già suscitato clamore in città e che rischia di diventare una vicenda nazionale. ”

da TGCOM