Riprendono i lavori del porto: toccarsi please !

L’assessore regionale alle Infrastrutture, Nico Torrisi, ha annunciato oggi che non ci sono più ostacoli burocratici per la ripresa dei cantieri per entrambi i lotti di lavori dell’area portuale.

Il primo lotto sospeso per il sequestro dei lavori per l’utilizzo di cemento depotenziato sarà eseguito dalla medesima ditta che aveva eseguito le precedenti opere la CO.VE.CO. quella coinvolta nella recente indagine sul MO.SE.
Resta da realizzare ancora un trenta per cento circa del totale dei lavori preventivati per un ammontare di sette milioni di euro circa.

L’ulteriore prosieguo dei lavori, il cosiddetto secondo lotto, era stato aggiudicato in un primo tempo ad un’ATI (Associazione temporanea di Imprese) costituita da COMES TIGULLIO di Chiavari (Ge), CA.TI.FRA srl di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), SEICON srl di Castellammare del Golfo (TP) e CO.GE.TA. srl di Trapani, quest’ultima oggetto di sequestro perchè nella disponibilità di Vito Tarantolo e tramite lui (è la convinzione degli inquirenti) in quelle di Matteo Messina Denaro.

Pertanto dopo la rinuncia dell’ATI aggiudicataria i lavori sono stati aggiudicati alla ditta che seguiva in graduatoria. In questo caso i lavori sono pari a circa quindici milioni e mezzo di euro.

Alla conferenza era presente l’onorevole MImmo Turano.

toccarsi

 

Castellammare: condannati i tre degli “arretrati”

Trapani, eredita azienda e il pizzo: tre condanne dopo la denuncia

PALERMO. Dal padre, e poi dalla madre, aveva ereditato l’azienda, la Agesp spa. Ma assieme alla società, operativa nel campo dei rifiuti, Gregory Bongiorno s’era portato dietro anche un pesante fardello: il pagamento del pizzo. Lo scorso anno Bongiorno ha denunciato i suoi estorsori e sotto processo, davanti al gup Giangaspare Camerini, sono finiti Mariano Asaro, ritenuto dagli inquirenti esponente di spicco di Cosa nostra del Trapanese, Gaspare Mulè, e Fausto Pennolino. Il gup ha condannato a 8 anni e 10 mesi Mulè (che in continuazione con una precedente condanna ha avuto 11 anni e 10 mesi), a 3 anni e 8 mesi Asaro (18 anni e 8 mesi in continuazione con una
precedente condanna), e a 6 anni e 8 mesi Pennolino (8 anni e 10 mesi in continuazione). Tutti accusati di estorsione e tentata estorsione aggravate dalla modalità mafiosa.

Dopo aver preso in mano l’azienda in seguito alla morte della madre, l’imprenditore, nel 2005, avrebbe consegnato 10 mila euro a Mulè, che si era presentato quale rappresentante dei boss. Le pressioni estorsive sarebbero andate avanti fino ad aprile 2007. Poi un lungo periodo di pausa, poichè i suoi estorsori vengono arrestati e condannati per il loro organico inserimento nell’associazione mafiosa. Cinque mesi dopo avviene la svolta in Confindustria, con l’adozione del nuovo Codice etico: fuori dall’associazione gli imprenditori che non denunciano. Bongiorno porta avanti l’attività fino a quando la mafia, l’anno scorso, ribussa ai cancelli della sua azienda. Pretende il pagamento degli arretrati: 60 mila euro, maturati, secondo la cosca, dal 2007 a oggi. Bongiorno, da un anno alla guida degli industriali trapanesi, decide di denunciare gli estorsori

da GDS.IT

Tutta la vicenda qui

Trapani: Processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, condannati all’ergastolo Vito Mazzara e Vincenzo Virga

Dopo ventisei lunghissimi anni è stata resa giustizia alla memoria di Mauro Rostagno.

La Corte di Assise di Trapani presieduta da Angelo Pellino ha riconosciuto essersi trattato di un omicidio mafioso, emettendo la sentenza nella tarda serata del 15 maggio 2014.
Ergastolo per Vito Mazzara (esecutore dell’omicidio) e per Vincenzo Virga (mandante a capo del mandamento mafioso di Trapani), dopo oltre 50 ore di camera di consiglio e al termine di un processo iniziato il 2 febbraio 2011 e articolatosi in 76 udienze ricche di testimoni, perizie e controperizie.
Accolte infine le richieste della accusa, Pubblici Ministeri Francesco Del Bene e Gaetano Paci, che partivano da una inchiesta riaperta ed avviata in precedenza da Antonino Ingroia.

Ampunitiiiiii !!!

L’espressione è di origine romanesca, ma qui il termine, anche ed indifferentemente nella versione più asettica di “impunito“, viene definito dal dizionario online “Sabatini Coletti” come aggettivo “Che non ha avuto la debita punizione: delitto i.” e come singolare maschile “Sfrontato,sfacciato: faccia da i.”.

Il caso è quello dei pontili e del lido autorizzati ai piedi del Castello di Castellammare del Golfo , di cui si dice nel comunicato del Comune di Castellammare del Golfo:

Dietrofront del demanio per le concessioni nell’area portuale.

L’assessorato regionale non revocherà quelle già rilasciate.

Il sindaco: “Non possiamo consentire questo sfregio ambientale. Promuoverò ogni altra azione prevista dalla legge”

«Non possiamo consentire lo sfregio ambientale nella zona di cala marina e cala petrolo. E’ un fatto allarmante. Chiederemo un’audizione alla commissione regionale Ambiente, rimarcando l’opportunità della sospensione del rilascio di concessioni demaniali. Promuoverò ogni altra azione prevista dalla legge a tutela del patrimonio paesaggistico. Ho ribadito formalmente la richiesta di ritiro della concessione rilasciata. Su quelle in itinere l’amministrazione esprime la propria ferma volontà, manifestata anche con atti deliberativi della giunta e del consiglio comunale, di sospendere il rilascio di concessioni demaniali su specchio acqueo e terraferma, che creano problemi ai lavori portuali in corso ed a tutela del paesaggio attorno al castello». Lo afferma il sindaco Nicolò Coppola dopo la conferenza di servizi riguardante le concessioni demaniali nel tratto di costa che va dal castello fino a cala petrolo.

Nella precedente conferenza di servizi convocata dal sindaco perché venisse sospeso il rilascio di nuove concessioni demaniali, capitaneria di porto, soprintendenza, genio civile e demanio, avevano ritenuto legittime le richieste dell’amministrazione, concordando sull’opportunità della sospensione del rilascio di concessioni demaniali. In particolare il demanio regionale si era impegnato a verificare “la possibilità di sospendere i procedimenti non ancora conclusi”. Ieri, invece, il responsabile dell’Arta Demanio, Salvatore Di Martino, ha sottolineato che in un particolare caso (pontile sotto castello) “con dispiacere, l’ufficio ritiene non procedibile la richiesta di revoca della concessione rilasciata”. Per le istruttorie in corso, invece, è stata richiesta, entro il 12 maggio, “formale relazione all’amministrazione, sulle ragioni che contrasterebbero con il rilascio delle relative concessioni”. La Regione sembra decisa ad andare avanti: “se le argomentazioni prodotte non saranno ritenute esaustive, l’ufficio procederà all’iter istruttorio, previa comunicazione”. Il presidente del consiglio comunale, Domenico Bucca sta già convocando un consiglio straordinario urgente “a tutela dell’immagine di Castellammare. Non si può svendere e sfregiare l’immagine della città per 3.800 “denari” – ha affermato il presidente del consiglio comunale -. Il demanio non tiene in considerazione il parere negativo della soprintendenza e la mancanza del parere della soprintendenza del mare. Una vera contraddizione: perché per l’approvazione del progetto di messa in sicurezza del porto, il Comune ha dovuto osservare una precisa prescrizione della soprintendenza, cioè la realizzazione del molo soffolto, mentre in questa occasione il demanio ritiene di non dovere tenere conto del parere negativo della soprintendenza, espresso a tutela del paesaggio”.

Portavoce del Sindaco: Annalisa Ferrante

L’unica cosa che ancora resta da stabilire è chi è (o chi sono) gli “impuniti” (e per quanto tempo continueranno ad esserlo) tra funzionari regionali e amministratori e funzionari locali.

Trapani: Processo per l’omicidio di Mauro Rostagno udienza del 26 febbraio 2014

Segna un punto di svolta l’udienza del 26 febbraio 2014 del processo per l’uccisione del sociologo e giornalista Mauro Rostagno avvenuta nel piccolo borgo di Lenzi, in territorio di Valderice la sera del 26 settembre 1988 ed in corso di svolgimento davanti alla Corte d’Assise di Trapani in cui sono alla sbarra il boss mafioso Vincenzo Virga e Vito Mazzara, per l’accusa, rispettivamente, mandante e killer dell’omicidio che sarebbe stato deciso per punire Rostagno per la sua attività giornalistica condotta attraverso l’emittente Rtc ‘Radio Tele Cine’.
Su questa udienza il punto di vista di Adriano Sofri pubblicato su “La Repubblica”:

La verità su Rostagno raccontata dal DNA nel processo al boss

Colpo di scena nell’udienza per l’omicidio del sociologo: il test dimostra che le tracce sull’arma del delitto sono del killer di Cosa nostra alla sbarra. E spazza via 26 anni di dubbi e depistaggi

di Adriano Sofri

Mercoledì 26 febbraio: si tiene in Corte d’assise a Trapani un’udienza (la sessantatreesima in tre anni) del processo per l’assassinio di Mauro Rostagno, ventisei anni dopo. I periti incaricati dalla Corte riferiscono sui risultati dell’esame delle tracce di DNA lasciate sui frammenti lignei del sottocanna del fucile usato per l’omicidio. Hanno individuato, spiegano, una “relazione di verosimiglianza” molto forte tra il DNA dell’imputato dell’esecuzione materiale, Vito Mazzara, e uno dei profili rilevati. Che la compatibilità sia “molto forte” non è un’espressione comune, è la traduzione (very strong) di una scala tecnica che contiene 5 gradi di evidenza dell’attribuzione: “debole”, “moderata”, “forte”, “molto forte”, ed “estrema”. “Molto forte vuol dire che la probabilità che un profilo preso a caso nella popolazione coincida con quello rilevato dell’imputato è di una su cento milioni”. (Nel caso di un’evidenza “estrema”, sarebbe di una su miliardi, ed equivarrebbe “alla certezza che un solo individuo sulla faccia della terra possa aver lasciato quella macchia”). Impressionante com’è, la relazione dei periti riserva un altro formidabile colpo di scena. Nelle tracce rilevate, il profilo di uno sconosciuto particolarmente individuato, siglato come “A 18”, appartiene a un parente (maschio) dell’imputato: “è parente biologico di primo o di secondo grado di Mazzara Vito con una probabilità del 99,9%, e specificamente la parentela più verosimile è quella di secondo grado (che include le coppie zio-nipote, i fratelli unilaterali – di padre o di madre –, i cugini doppi, e altre parentele più complicate)”…
I periti d’ufficio che così asciuttamente riferiscono –Elena Carra, dell’università di Palermo, Paola Di Simone, della polizia scientifica di Palermo, e Silvano Presciuttini, dell’università di Pisa- sono oltretutto ignari della circostanza, riferita a suo tempo dal “pentito” Ciccio Milazzo, secondo cui Vito Mazzara (66 anni, già campione di tiro a volo) si esercitava a sparare con uno zio, Mario Mazzara, nel frattempo deceduto, e con altri due uomini d’onore, Salvatore Barone e Nino Todaro. L’imputato Vito Mazzara, assiduo in aula –dove non ha mai risposto- è detenuto, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’agente penitenziario Giuseppe Montalto, e altri omicidi commessi agli ordini di Cosa Nostra e, per la zona di Trapani, del boss Vincenzo Virga. Virga, 75 anni, anche lui ergastolano detenuto, è imputato come mandante. Per svolgere la perizia assegnata dalla Corte le due biologhe e il docente di biostatistica hanno lavorato sul DNA di 8 “professionisti” di cui era accertato l’intervento sui reperti nel corso delle indagini, in modo da separarne i profili (curiosamente, uno di loro, un ufficiale dei carabinieri, si era tenacemente opposto al prelievo del proprio DNA, nonostante la perizia sia anonima quanto all’attribuzione dei profili rispettivi). E’ risultato così che, oltre agli 8 e all’imputato, sono presenti nei frammenti del fucile calibro 12 tracce genetiche di altri individui non identificati, uno dei quali, quel “A 18”, legato da parentela all’imputato. Si sa che il ricorso più diffuso alla genetica ha a che fare con gli accertamenti di paternità, che hanno superato il proverbiale “mater semper certa, pater autem incertus”, e inciso sulla questione scottante dell’eredità dei patrimoni. Qui, inaspettatamente, l’indagine sulla presenza di un soggetto sull’arma del crimine ha portato a trovarne un secondo a lui affine, raddoppiandone per così dire l’evidenza.
Il colpo di scena mi ha riportato a un classico di Mark Twain, “Wilson lo zuccone” (poi ritradotto come “lo svitato”) che sono corso a rileggere appena uscito dall’aula, nella gloriosa edizione della Bur. Grazie alla mania di raccogliere e studiare le impronte digitali, l’eccentrico Wilson risolve un caso di omicidio complicato dalla sostituzione in culla di due bambini somiglianti come gocce d’acqua. (Tema ripreso nel Principe e il povero). Nel testo di Twain era ancora viva la sensazione suscitata dalla scoperta delle impronte digitali –Wilson chiede a tutti di passarsi le mani nei capelli e poi depositare l’impronta sui suoi vetrini. Le meraviglie dei ghirigori dei polpastrelli culminavano nella singolarità dei gemelli. Il famoso saggio di Carlo Ginzburg sul “paradigma indiziario”, “Spie” (1979) ripercorre la storia dei modi in cui l’individuazione si è venuta svolgendo, nelle attribuzioni artistiche o nelle certificazioni di polizia, fino alle impronte digitali.
Non so se le mirabolanti conseguenze delle analisi del DNA abbiano già suscitato una letteratura romanzesca adeguata, ma assistendo all’udienza trapanese ho avuto l’impressione che la realtà ne stesse scrivendo, pressoché inavvertitamente, un capitolo inedito e spettacoloso. E insieme un amaro risarcimento alle falsificazioni, manipolazioni e sciatterie che hanno oltraggiato per un quarto di secolo l’indagine sull’omicidio di Mauro Rostagno. La fantasia narrativa seguirà, ma qui la perizia scientifica e la strumentazione di laboratorio vengono a capo di una tragedia umana e civile e di una procedura penale, dopo che si è fatto di tutto, in stolidità o complicità, per cancellare, confondere e rimescolare tracce.
La presenza del parente “A 18” sul reperto non dimostra che il non identificato (finora) parente si trovasse sul luogo del delitto, perché avrebbe potuto maneggiare l’arma in circostanze precedenti. Era stata proprio l’indagine sui reperti, bossoli cartucce e parte del fucile, a far riaprire il processo, grazie all’iniziativa del capo della squadra mobile di Trapani, oggi a capo della DIA campana, Giuseppe Linares, dopo che per vent’anni non era stata eseguita nemmeno una perizia balistica. Del resto, durante questo processo, membri dell’Arma hanno dichiarato di non aver mai seguito la pista mafiosa perché nessuno gliel’aveva ordinato, e non ritenevano di farlo di propria iniziativa.
Il prossimo 14 marzo i pubblici ministeri, le parti civili e la difesa discuteranno la relazione dei periti (illustrata in oltre 600 pagine). La difesa di Mazzara ha assunto come consulente l’ex generale dei carabinieri Luciano Garofalo, già capo dei Ris di Parma e star televisiva. Il processo dovrebbe concludersi a maggio. La corte d’assise, che comprende i sei giudici laici, è guidata dal presidente Angelo Pellino (cui si devono le motivazioni delle sentenze nei processi per Mauro De Mauro e Peppino Impastato) e dal giudice a latere Samuele Corso. Dopo la clamorosa udienza di mercoledì, ho aspettato di leggere cronache e commenti. Non sono venute, une e altri. Sembra stridere, questa distrazione di oggi, col fragore delle “piste” lanciate in passato: omicidio fra compagni, questione di amorazzi, fesseria di drogati, scoperte su traffici di armi internazionali… Ma non è così, non stride. Il silenzio di oggi è semplicemente la continuazione di quel frastuono di ieri e dell’altroieri.”

Città del sale, c’è stata una strage di migranti, non è Trapani

C’è una cittadina francese in Provenza che ha conservato interamente la cinta di mura medievali, Aigues-Mortes si chiama, ed è oggi un’importante meta turistica. Pensate che l’accesso automobilistico alla parte della città interna alle mura è strettamente regolamentato e tutti i punti di ingresso richiedono il pagamento di un biglietto di ingresso. Questo fa sì che il traffico automobilistico sia estremamente ridotto e che la qualità della vita dei suoi abitanti ne sia preservata.
Il nome di Aigues-Mortes le deriva dalle paludi e dagli stagni che la circondano.
La principale industria di Aigues-Mortes è legata alla produzione di sale marino.
Alle porte della città sono presenti le “Salins du Midi” che con le altre presenti in Camargue rappresentano il primo centro di produzione della Francia.

9782213636856-43df7Nell’agosto del 1893 Aigues-Mortes fu teatro di uno scontro tra operai francesi e italiani, tutti impiegati nelle saline di Peccais, che ben presto degenerò in un vero e proprio “pogrom” contro gli italiani in una esplosione incontrollata di violenza xenofoba.
Il bilancio finale delle vittime per diverse ragioni, non fu mai accertato con sicurezza, si va da un minimo di nove morti secondo le stime ufficiali, riportate dalla stampa francese, alle 50 vittime di cui parlò il Times di Londra.Secondo altre fonti le vittime potrebbero essere state centinaia. La tensione che ne seguì sul piano diplomatico all’epoca fece sfiorare la guerra tra i due paesi.

Ad Aigues Mortes in quell’agosto del 1893, si trovava stanziata una nutrita colonia di operai italiani che avevano trovato occupazione nelle saline di Perrier e Peccais.
Gli operai italiani erano preferiti ai francesi perché meno sindacalizzati e disposti ad accettare paghe inferiori pur di poter lavorare.
Il lavoro in salina era particolarmente duro e scarsamente remunerato.
Prima bisognava pulire il terreno e livellarlo, quindi a maggio si introduceva l’acqua salmastra.
A giugno poi il sole faceva evaporare l’acqua ed allora si frantumava il sale, se ne facevano mucchi, si trasportava il sale lasciato a riposare tra i mucchi verso altri mucchi, più grandi dei primi, e si ricoprivano di paglia e tegole.

Da secoli l’estrazione del sale era occupazione riservata quasi esclusivamente agli ex-galeotti, ma proprio nel 1893 la Compagnia delle saline aveva assoldato 600 italiani e 150 francesi, anche se di questi ultimi se ne erano presentati 800, gli italiani vennero preferiti perchè pur di lavorare accettavano una paga sensibilmente inferiore rispetto ai francesi.

La giornata di lavoro durava undici ore, dalle sei alle sei con un’ora di riposo per asciugarsi, mangiare un pezzo di pane. Il lavoro era a cottimo. Uno bravo poteva fare fino a 12 franchi, ma molto dipendeva dalla squadra, infatti gli operai erano organizzati in squadre e le squadre erano organizzate per nazionalità. Se si rallentava il ritmo era l’intera squadra a perderci, e allora il salario poteva scendere a 9 franchi.
Se una squadra francese intralciava una squadra italiana, gli italiani facevano luccicare i coltelli.
Gli italiani venivano in prevalenza dal Piemonte, ma anche dalla Lombardia, dalla Liguria, dalla Toscana.

barnaba-morte-italiani-libro_106367Il 16 agosto del 1893, a poche ore dall’inizio, accade che un uomo litiga con un altro uomo. Sono un francese e un italiano. Poi ancora un litigio. Ancora un una volta tra un italiano e un francese. Durante l’ora di pausa uno degli italiani, uno di Torino, si alza, s’asciuga il sudore della fronte e si dirige verso una tinozza d’acqua dolce. L’uomo slega il fazzoletto dal collo e lo immerge nella tinozza. Ha bisogno di refrigerio, di acqua dolce, ma l’acqua dolce in quell’ambiente è preziosa. Uno dei francesi, gli dice qualcosa. Il torinese che dice che se ne infischia di lui e dei suoi compagni. E scoppia la rissa, si brandiscono coltelli, pale. Il torinese, che con il coltello ci sa fare, ferisce uno degli uomini che lo hanno aggredito.
Poi accade che un francese lancia una pietra nella baracca degli italiani. Allora una delle baracche in cui dormono i francesi viene circondata dagli italiani.
Qualche operaio francese riesce a correre via, verso la città, verso Aigues-Mortes per informare le autorità di polizia. Il giudice di pace viene informato dei fatti.
In città, intanto, si sparge la voce di un massacro compiuto dagli italiani.
Scatta la psicosi collettiva alimentata dalla xenofobia. Così si organizza una folla. Gli operai italiani, ora sparsi per le stradine del centro di Aigues-Mortes, corrono e si nascondono.
Verso le tre del pomeriggio il banditore verrà ingaggiato per bandire gli italiani, e una folla inferocita di francesi lo seguirà urlando lungo i vicoli della città del sale.
Le forze dell’ordine è come non esistessero. In città, a quell’ora, ci sono solo sei gendarmi e quindici doganieri a fronteggiare un migliaio di francesi scatenati nella caccia all’uomo, presi a sassate, sgozzati o trafitti dai forconi. Donne, ragazzini e adulti si lanciano sui corpi. Ci sono anche i cecchini, piazzati dietro agli alberi. Cadono in molti, quel giorno, nella notte e l’indomani. Colpiti dalle pallottole, dalle pale. Tutti coloro che si fermano vengono uccisi.

Maurice Terras, il primo cittadino del paese, dopo avere ottenuto che i padroni delle saline, sotto il crescente rumoreggiare della folla, licenziassero gli immigrati fece affiggere un comunicato: “Il sindaco della città di Aigues-Mortes ha l’onore di portare a conoscenza dei suoi amministrati che la Compagnia ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana e che da domani i vari cantieri saranno aperti agli operai che si presenteranno. Il sindaco invita la popolazione alla calma e al mantenimento dell’ordine. Ogni disordine deve infatti cessare, dopo la decisione della Compagnia“.

Non fu così e alla fine, ufficialmente ci furono quattordici morti di cui nove sono stati riconosciuti. Le testimonianze però parlano di cifre diverse. Tra i cinquanta e i novanta, morti nei letti dei fiumi, morti sul sale,.morti nelle baracche, morti in città.

Il secondo manifesto, fatto affiggere dal Sindaco dopo la strage, recita: “Gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Il sindaco della città di Aigues-Mortes invita tutta la popolazione a ritrovare la calma e a riprendere il lavoro, tralasciati per un momento. (…) Raccogliamoci per curare le nostre ferite e, recandoci tranquillamente al lavoro, dimostriamo come il nostro scopo sia stato raggiunto e le nostre rivendicazioni accolte. Viva la Francia! Viva Aigues-Mortes!“.

Maurice Barrès in un articolo dal titolo “Contre les étrangers” pubblicato su Le Figaro, scrisse: “il decremento della natalità e il processo di esaurimento della nostra energia (…) hanno portato all’invasione del nostro territorio da parte di elementi stranieri che s’adoprano per sottometterci” e Le Mémorial d’Aix scrisse che gli italiani: “presto ci tratteranno come un Paese conquistato” e “fanno concorrenza alla manodopera francese e si accaparrano i nostri soldi“, e “la presenza degli stranieri in Francia costituisce un pericolo permanente, spesso questi operai sono delle spie; generalmente sono di dubbia moralità, il tasso di criminalità è elevato“, e La Lanterne scrisse: “Contro un’orda di affamati che a casa loro languiscono nella miseria” proprio come ci capita di leggere troppo spesso su Facebook a proposito dei migranti in transito per l’Italia.

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Sindaco Damiano datti una mossa !

Dopo l’azione di mobilitazione, sensibilizzazione e restituzione alla coscienza dei trapanesi dei propri beni ad opera dell’associazione Trapani Cambia, sulla riqualificazione dei locali del Lazzaretto di Trapani, ora si attende una decisa azione del sindaco di Trapani che ne consenta il recupero e la fruizione.

In questo video una buona ricostruzione della vicenda per capire a che punto siamo.

Avete visitato la Mostra in corso a Trapani su “I grandi capolavori del corallo” ?

Se ancora non l’avete vista, ricordate che avete tempo fino al 30 giugno.

Io ci sono stato oggi e, per quel che vale, vi dico che è una mostra da non perdere.

La mostra è proposta al Museo Pepoli di Trapani e riunisce capolavori assoluti dell’antica arte del corallo sviluppatasi per secoli in Sicilia, ed in particolare a Trapani, luogo dove la realizzazione di manufatti in corallo raggiunse le vette più alte della bellezza e della maestria artistico-artigianale.

I nuclei principali delle opere in mostra testimoniano la ricchezza e la qualità di alcune collezioni fondamentali del settore. Quelle della Banca di Novara, dello stesso Museo Pepoli di Trapani, della Fondazione Whitaker, del Museo Diocesano di Monreale e di altre raccolte pubbliche nonchè pezzi singoli, proprietà di collezionisti privati italiani e stranieri.

Intorno alla pesca del corallo con le “coralline” nei fondali delle Egadi, sul banco skerki e intorno all’isola di Tabarca si sviluppò a Trapani un commercio florido. Si ebbe allora una vera e propria “corsa al corallo” che ha rischiato di far scomparire per sempre le colonie più facilmente raggiungibili.

Nel periodo della floridezza di tale commercio a Trapani sorsero numerose botteghe artigiane che crearono capolavori di grande valore artistico. Gioielli, ma anche calici, ostensori, crocifissi, reliquari, presepi, scrigni, calamai, saliere e soprattutto elementi di raffinato arredo: specchiere, tavoli da gioco, cornici, sino a monumentali trumeaux destinati a case principesche e regge, talvolta utilizzati come doni di Stato.

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Ha origini trapanesi il massimo esperto italiano di parolacce

Si chiama Vito Tartamella, ed è nato a Milano, ma di Trapani erano i genitori. Tartamella è uno psicolinguista, caporedattore della rivista scientifica Focus.
Nel 2006 ha pubblicato un libro dal titolo “Parolacce” – Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno – Dai Babilonesi a Benigni 4.000 anni di imprecazioni, oscenità, insulti – In 43 lingue.

Il libro di Tartamella si sviluppa in dieci densissimi capitoli che affrontano il tema “parolacce” dal punto di vista linguistico, culturale, religioso e psicologico.
In ciascun capitolo l’autore affianca la trattazione scientifica ad esempi che rendono concreta l’idea di cosa si stia parlando.
Nella conclusione, Vito Tartamella individua dieci falsi miti sulle parolacce:

1. Le parolacce non sono un “vero” linguaggio.
2. Il turpiloqui non è essenziale per il linguaggio.
3. Il turpiloquio è brutto ma può essere eliminato.
4. Il turpiloquio è un problema moderno.
5. Bisogna proteggere i bambini dal turpiloquio.
6. Il turpiloquio è un problema degli adolescenti.
7. Il turpiloquio è un’abitudine delle classi basse e maleducate.
8. Si dicono più parolacce oggi che in passato.
9. Il turpiloquio è diffuso perché la gente non sa controllarsi.
10. Il turpiloquio è dovuto a scarso lessico e abilità linguistica.

Quella che segue è una eccellente intervista di Stefano Lorenzetto a Vito Tartamella per “Il Giornale

Il giornalista scientifico che scrive solo parolacce

Laureato alla Cattolica, è il massimo studioso italiano di turpiloquio. Redige la statistica delle imprecazioni più diffuse: “c…” al primo posto

Avvertenza per l’uso: le persone particolarmente sensibili sono invitate ad astenersi dal proseguire nella lettura. Qui, infatti, si narra di Vito Tartamella, 47 anni, compunto giornalista scientifico, caporedattore centrale del mensile Focus, che passa per essere il massimo esperto italiano di turpiloquio.

A porgli sul capo la corona (di spine) è stato il bavarese Reinhold Aman, residente in California, ex docente in scuole e atenei statunitensi, sicuramente l’autorità mondiale riconosciuta in tema di parolacce, avendo fra l’altro fondato Maledicta, rivista accademica dedicata allo studio del linguaggio offensivo, «uno scienziato squisito, mite, simpatico, che mi ha molto aiutato nelle mie ricerche», sparge incenso Tartamella.

I due si sono incontrati come relatori all’Università di Chambéry, in Francia, dove si tiene un convegno biennale per aggiornare la classifica planetaria delle scurrilità.
A tal proposito, premio subito i lettori licenziosi che sono arrivati al secondo capoverso informandoli che «Oh, merda!» , declinata in tutte le lingue, è in assoluto l’espressione rintracciata con più frequenza nelle scatole nere dopo i disastri aerei, mentre «cazzo» resiste al vertice delle preferenze italiche: «Già Italo Calvino aveva osservato che è una parolaccia di espressività straordinaria, senza pari in altri idiomi».

Tartamella ha compilato la statistica raffrontando migliaia di dati, «non posso per il momento rivelare quali, dico solo che non si tratta di citazioni tratte dai giornali o da Internet», e mostra come prova una spanna di tabulati che costituiranno la base del suo prossimo lavoro, dopo il bestseller Parolacce, studio di 380 pagine uscito nel 2006 che spiega perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno.

In un Paese dove il capo dello Stato teme che la violenza verbale porti all’eversione, la presidente della Camera ricorre alla polizia per difendersi dalle contumelie via Web e il direttore del Tg La7 chiude il suo account Twitter nauseato dagli improperi, i due tomi dovrebbero essere adottati come libri di testo nelle scuole.

Solo un laureato in filosofia uscito nel 1992 con 110 e lode dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, fondata da padre Agostino Gemelli, poteva affrontare con padronanza una materia includente persino le bestemmie. Il titolo della tesi che preparò con lo psicolinguista Ferdinando Dogana, Psicosociologia del cognome, nasceva da uno shock infantile.

«Sono figlio di un maresciallo maggiore della Guardia di finanza e di una maestra elementare originari di Trapani e, benché sia nato a Milano, i miei coetanei hanno sempre giocato sul mio cognome per offendermi in quanto terrone. Mi chiamavano Tarantella, Tartanella, Gargamella e io provavo un fastidio addirittura fisico per questo. Oggi non ci farei più caso. Ho persino ricevuto per posta una pubblicità indirizzata al signor Vino Tavernella».

A spronarlo verso il giornalismo fu il padre Giovanni, che nel 1986 incappò in un annuncio strabiliante – specie se riletto in tempi di crisi dell’editoria – apparso sul Cittadino, bisettimanale cattolico di Monza e Brianza: «Cercansi collaboratori». «Mi presentai al caporedattore. “Che sai fare?”. Studio filosofia. “Uhm. Che altro?”. Suono il pianoforte. “Ottimo. Ti occuperai di musica”. Alla terza stroncatura la mia carriera di recensore era già finita: me l’ero presa con un disco di Scialpi».

Ma Tartamella – oggi sposato con la collega Paola Erba di Rai News e padre di un bimbo di 5 anni – non si diede per vinto. Si buttò sulla cronaca, bianca e nera. Fu reclutato da Brianza Oggi, nuovo quotidiano dell’editore Giuseppe Ciarrapico, che però chiuse dopo un anno. Passò come abusivo al Giorno, infine fu assunto. Quattro anni al Corriere di Como, altri due al service Vespina di Giorgio Dell’Arti, poi l’approdo a Focus.

Come reagì il direttore Sandro Boeri quando gli spiegò che voleva occuparsi di parolacce?
«Mi disse: “Fantastico!”».

Un direttore veneto le avrebbe risposto: «Ma va’ in mona!».
«Era nata come idea per un servizio da affidare a qualche redattore. Alla fine è diventato un libro e un blog, http://www.focus.it/parolacce, che ci ha spalancato prospettive internazionali. La scrittrice americana Dianne Hales mi ha dedicato un capitolo nel suo volume La bella lingua».

Come mi regolo con lettori del Giornale, giustamente assai suscettibili? Metto i puntini di sospensione o no?
«Non saprei».

Ma non fa il caporedattore centrale?
«L’importante è che dal contesto si capisca ciò che dico».

Se scrivo c…o, non si capisce se sta parlando dell’organo davanti o di quello dietro.
«Io eviterei i puntini di sospensione. La censura rende più evidente la parolaccia, insegnava Claude Lévi-Strauss».

Però il lubrico Giacomo Casanova si limitava a nominare il c…o come «l’agente principale dell’umanità».
«Anche François Rabelais e Teofilo Folengo hanno dimostrato una maestria assoluta nell’uso delle parolacce. E tra il poeta settecentesco Giorgio Baffo, veneziano, e I soliti idioti non c’è confronto».

Lei sostiene che il c…o sia diventato nell’odierna civiltà, o inciviltà, una sorta di jolly linguistico.
«È così, ma aveva larga diffusione già nel Seicento, come attesta La rettorica delle puttane di Ferrante Pallavicino, canonico che fu fatto decapitare da Papa Urbano VIII per i suoi libelli irriverenti. Oggi, a seconda delle circostanze, può esprimere sorpresa, cazzo!, offesa, cazzone, elogio, cazzuto, rabbia, incazzato, approssimazione, a cazzo, dissapore, scazzo. Il corrispettivo femminile non gode certo di minore audience. Il professor Alessandro Roccati, egittologo alla Sapienza di Roma, ha raccolto un’antologia di insulti scritti nelle cappelle della necropoli menfita durante l’Antico Regno, in papiri della fine del secondo millennio e nei “testi delle piramidi”. Fra questi, ricorrono spesso vulva, figa fottuta, putrida allargata, detto di Iside, e femmina senza vulva, detto di Nefti. E stiamo parlando della dea della maternità e della dea dell’oltretomba».

In Parolacce ha messo come esergo una frase di Sigmund Freud: «Colui che per la prima volta ha lanciato all’avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia è stato il fondatore della civiltà». Ne è convinto?
«Certo, perché ha spostato sul piano simbolico l’aggressione fisica. Benché anche una parolaccia possa essere assai distruttiva. Del resto si tratta di tabù, di parole vietate in quanto evocano emozioni e contenuti potenzialmente pericolosi per un gruppo sociale. Per questo la nostra civiltà ha stabilito che abbiano dei limiti d’uso di diversa gradazione. Ho condotto un sondaggio online su un campione di 2.600 soggetti ed è risultato che l’espressione va’ a cagare ha un impatto assai meno dirompente rispetto a figlio di puttana. Le più offensive sono le bestemmie».

Comprensibile.
«Però in Norvegia o in Svezia la blasfemia non esiste. Al contrario dell’Italia, che ne è la patria mondiale. Questo perché per secoli il concetto di divinità da noi ha coinciso con l’autorità dello Stato Pontificio. Si bestemmiava Dio per ribellione contro il Papa Re che ne incarnava visibilmente il Figlio sulla terra. Non a caso imprecare, nell’etimologia latina, significa pregare contro. Le parolacce sono sempre rapportate a concetti delicatissimi: vita, morte, sesso, malattie, religione, rapporti sociali».

Ma a che servono?
«A esprimere una reazione negativa, a verbalizzare un’emozione forte, spesso al di là delle nostre intenzioni. Mio padre perse per qualche mese la parola a causa di un ictus. Ciononostante quando s’arrabbiava gli usciva spontanea di bocca qualche volgarità. Un fatto ben noto ai neurologi: le parole sono controllate dall’emisfero sinistro, le parolacce da quello destro, che presiede all’emotività. Il danno cerebrale non aveva intaccato il secondo».

Davvero scegliamo le parolacce in base al loro suono?
«Si chiama fonosimbolismo, è una teoria linguistica. Il modo di articolare i fonemi imita la realtà. Prenda mucca: le prime due lettere ricordano il verso dell’animale, muu. Parolacce come cazzo, puttana, baldracca sono composte da consonanti occlusive. L’aria che giunge dalla trachea dapprima è ostacolata da queste lettere che ne aumentano la pressione intraorale, dopodiché viene violentemente espulsa, provocando una sorta di piccola esplosione. Sono le consonanti della forza e della durezza. Disgusto, rifiuto, disprezzo e condanna sono espressi invece con l’espulsione del fiato delle lettere fricative tipo la “f”: fanculo, fanfarone, fetente. Sono i fonemi del rifiuto, come uffa».

Ma perché le parolacce esercitano su di lei questo fascino?
«Potrei spiegarlo con un episodio dell’infanzia. Alle elementari una compagna di classe mi diede sulla testa l’atlante della De Agostini. Avvertii un dolore così forte, con una scossa dal gusto salato in bocca, che le urlai: puttana! Non avevo mai avevo pronunciato quella parola prima d’allora. Per me fu uno shock, ci stetti male tutto il giorno. In realtà, del turpiloquio m’interessa l’aspetto culturale, che coinvolge a 360 gradi storia della letteratura, linguistica, glottologia, psicologia, sociologia, neurologia, giurisprudenza, statistica».

Quanto avrà pesato il Vaffanculo-Day nell’ascesa di Beppe Grillo?
«Lo sdoganamento della parolaccia in politica risale alla notte dei tempi. Benito Mussolini non disdegnava la bestemmia. Suo genero Galeazzo Ciano nel 1939 definì Achille Starace, segretario del partito fascista, “un coglione che fa girare i coglioni” per la sua pedanteria. Bettino Craxi rivolse lo stesso epiteto a Renato Altissimo nel 1986. Nel 1984 il ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fischer, disse al capo del Bundestag: “Con rispetto parlando, signor presidente, lei è un buco di culo”.

Umberto Bossi nel 1997 bollò l’ex ideologo leghista Gianfranco Miglio come “una scoreggia nello spazio”. Da lì in poi è stata una sparata continua. Le parolacce interpretano gli umori della piazza, si fanno capire da tutti. Il filosofo Arthur Schopenhauer nel saggio L’arte di insultare scrive che l’insulto è una calunnia abbreviata. Sono però un’arma a doppio taglio: accorciano le distanze a detrimento dell’autorevolezza. Per tornare a Grillo, la volgarità è un vettore che ti porta in orbita. Ma quando sei già arrivato nell’empireo, tanto da crederti il primo partito, non puoi più permettertela: ti danneggia».

Lei ha scovato espressioni forti persino nella Bibbia.
«Nel Libro di Malachia, fra le minacce rivolte ai sacerdoti infedeli, c’è anche quella di smerdarli: “Se non mi ascolterete, dice il Signore, io spezzerò il vostro braccio e spanderò sulla vostra faccia escrementi”».

Sparlano pure i medici.
«Un chirurgo e un anestesista hanno registrato di nascosto le imprecazioni dei colleghi in sala operatoria all’ospedale Berkshire di Reading, nel Regno Unito, assegnando punteggi diversi a bestemmie, riferimenti escrementizi e oscenità. I risultati, riguardanti 100 interventi, sono apparsi sul British medical journal. Su 80 ore e mezzo di attività chirurgica, in media si è totalizzato un punto, cioè una parolaccia, ogni 51,4 minuti. In una giornata di lavoro tipica, otto ore, gli ortopedici hanno totalizzato 16,5 punti, pari a una parolaccia ogni 29 minuti; i chirurghi generali 10,6; i ginecologi 10; gli urologi 3,1; gli otorinolaringoiatri 1».

Perché gli ortopedici sono sboccati?
«Un intervento dell’ortopedico dura in media 51,7 minuti, contro i 34,4 dell’otorinolaringoiatra, richiede grande fatica e l’uso di martelli, seghe e trapani, quindi il turpiloquio tende a uniformarsi a quello degli operai».

Non starà dilagando un’epidemia della sindrome di Tourette, che comporta l’incoercibile pulsione a pronunciare volgarità?
«Quella è frutto di un deficit neurologico. Tuttavia un qualcosa di contagioso il turpiloquio ce l’ha. Corriamo il rischio di un’inflazione della parola e della parolaccia, l’usura dei concetti e delle relazioni».

In Parolacce rivolge un ringraziamento finale alle «molte persone a cui ho rotto le balle». Perché ha scritto balle anziché coglioni?
«Mi rivolgevo anche a mia madre Margherita, che pur odiando le parolacce ha avuto il coraggio di leggere il libro in anteprima. Balle era più bonario da usare con gli amici che mi hanno aiutato. Insomma, spero proprio d’avergli rotto le balle, non i coglioni».”