Pagine di storia: Don Giuseppe Ancona (1875 – 1951)

Giuseppe Ancona, Sacerdote, educatore, perseguitato politico“, così il compianto amico Padre Gaspare Bosco sintetizzava la figura di questo singolare sacerdote castellammarese.

In “Bernardo Mattarella: biografia politica di un cattolico siciliano” di Giovanni Bolignani si legge: “... figlio di contadini, da ragazzo aiutava il padre a coltivare la terra e le sue umili origini gli permettevano di penetrare l’animo dei giovani agricoltori ed operai che, insieme ai giovani studenti, si raccoglievano attorno al Circolo “San Paolo”, di cui don Giuseppe era assistente ecclesiastico. L’importanza che la figura di questo sacerdote assume nella formazione di Bernardo Mattarella è testimoniata dalle parole con le quali egli lo ricorda:
Non v’è dubbio che la nostra generazione deve a Lui moltissimo della sua formazione spirituale e dei suoi orientamenti civili. Gli deve molto perchè qui Egli fu per lungo tempo l’animatore di ogni attività religiosa e culturale dei giovani, […] l’amico e il confidente di ciascuno di noi, che a Lui affidavamo nel riserbo e nell’amicizia i nostri sentimenti anhe più intimi, conquistati come fummo, sin dai primi mesi dalla saggezza, forte e cordiale insieme, con cui si esplicava la sua virtù di educatore, di consigliere, di direttore spirituale.”
“, ed ancora “A rendere ancor più incisivo l’insegnamento di don Giuseppe Ancona è l’esempio della sua povertà di vita: Visse tra privazioni costanti, talvolta in una vera indigenza, ma dava sempre tutto quel poco di cui poteva disporre per la vita dell’associazione“.
Ed infine, sempre Bernardo Mattarella dice di lui: “Mite ma forte, visse con intrepida fede e coraggiosa coerenza cristiana i problemi del nostro tempo, aperto come era agli insegnamenti della scuola sociale cristiana, della quale fu a noi Maestro.

La città lo ricorda con il nome di una via.

Per comprendere meglio la personalità e la passione civile di Don Giuseppe Ancona niente di meglo di questo articolo di Mario Genco, pubblicato sul Giornale di Sicilia il 26 settembre del 1996.

Quel prete contro il regime che fu spedito al confino

Fu l’unico prelato tra i 684 siciliani a subire il provvedimento: parroco a Balestrate, don Giuseppe Ancona chiese il rimborso per una Messa di suffragio in memoria di un Caduto di Spagna

L’anno della storia che stiamo per affidare alla vostra pazienza è il 1938.

Il luogo è Balestrate, grosso paese vinicolo ad una quarantina di chilometri ad ovest di Palermo: più di settemila abitanti allora, quattromila e rotti oggi.

All’arciprete parroco Don Giuseppe Ancona, sessantatre anni piuttosto malconci, non piacevano i fascisti del paese ed egli non piaceva a loro.

Forse non è il caso di generalizzare: le carte ufficiali di cui disponiamo – e che, come tutti i “documenti”, vanno maneggiate con cautela – testimoniano solo che l’arciprete, che di suo doveva ssere un tipo un pò bizzoso, era inviso al segretario del Fascio, capomanipolo delle camicie nere dottor Faro Ruffino. Inviso al segretario del Fascio, a quei tempi, si diceva “ritenuto di continuo pericolo per il mantenimento dell’ordine pubblico”. Ma la polemica si svolgeva, diciamo così, per linee interne: il segretario ogni tanto faceva raccogliere un pò di firme contro il sacerdote e spediva le lagnanze all’arcivescovo di Monreale, al quale arrivavano anche le proteste del sacerdote, e al comando della Milizia. Entrambe le “superiori gerarchie” prendevano atto. E non accadeva nulla. Mai nelle puntigliose “relazioni mensili sull’attività del clero e dell’azione cattolica”, che la questura tramite prefettura spediva al ministero dell’Interno, il nome dell’arciprete e le sue pericolose attività erano state giudicate degne di menzione. Il parroco rimaneva al suo posto.

Come mai quindi, don Giuseppe Ancona fu l’unico prete fra i seicentottantaquattro siciliani mandati al confino dal regime fascista per motivi politici ?

Don Giuseppe Ancona scrisse una lettera …

Era, s’è detto, l’anno 1938. Il mese di maggio del 1938. In Spagna, l’esercito ribelle del generale Franco era all’offensiva contro le forze del legittimo governo repubblicano e le sorti della guerra civile, cominciata il 17 luglio del 1936 e che sarebbe durata ancora poco meno di un anno, apparivano decise. Con Franco combatteva una armata fascista: trentacinquemila uomini all’inizio, diventarono presto sessantamila. Erano definiti tutti “volontari”, dal comandante in capo all’ultima camicia nera: l’unica differenza con i reparti delle forze armate regolari era che gli “spagnoli” non portavano le stellette. La contabilità generale del massacro avrebbe calcolato, alla fine, quattromila morti e circa undicimila feriti tra gli italiani.
Uno di questi poveri morti, detti “gloriosi caduti”, era stato il legionario camicia nera Faro Ruffino, cugino omonimo del segretario del Fascio di Balestrate. Il quale, per onorare il “sacrificio della vita offerta in nome di un alto ideale di Patria e di Civiltà Fascista”, volle far celebrare una messa di suffraggio alla scadenza del trigesimo. Così, il 15 maggio del 1938, tutte le “Organizzazioni del Partito e i cittadini di Balestrate” assistettero alla messa officiata dall’arciprete Ancona. Finita la messa gabbato lo prete ? dovette chiedersi l’arciprete quando, dopo i “doverosi ringraziamenti”, segretario del Fascio e commissario prefettizio del Comune andarono via senza mettere mano al portafoglio.

Don Ancona si sedette alla macchina da scrivere e spedì il conto della funzione alla sede del Fascio.
“Dopo tre giorni il suddetto parroco fece pervenire al Capo Manipolo Ruffino – denunciò il Capo Manipolo Ruffino al comando della Milizia, parlando di sè in terza persona – la nota delle spese ammontante a L.60; il Ruffino sorpreso della richiesta, in quanto la messa era stata celebrata per un Caduto di Spagna, fece le sue lagnanze al parroco, il quale rispose con la lettera che si acclude in copia…”.
La lettera aveva scandalizzato il capo manipolo Ruffino, e certamente non per la cifra richiesta (sessanta lire del 38 equivalgono a meno di settantamilalire di oggi) e minuziosamente dettagliata: diritti del parroco più venti lire per il sagrestano e gli altri servizi, cinque centesimi (cinquanta lire …)per le sedie che “la cittadinanza si rifiutava di pagare col pretesto che erano invitati. Altro che carattere cittadino !”
Il tono della lettera era tutto ostile ma un afrase era sembrata di gravità inaudita e inaccettabile a faro Ruffino; e certo, dal suo punto di vista, lo era.
In una vertigine di verità liberatoria, come definirla altrimenti, don Giuseppe Ancona aveva motivato la sua parcella così: “… tanto più che il decesso non era un fatto di causa italiana, ma un infortunio come potrebbe accadere ad ognuno che va in cerca di lavoro in imprese difficili e di libera scelta”.
Difficile definire con più spietata esattezza il senso e il carattere che quella guerra aveva per la massa dei “volontari” arroluatisi sotto i gagliardetti neri, e specialmente per quelli meridionali: una variante cruenta dell’emigrazione e la morte messa nel conto come incidente sul lavoro, si deve pur vivere …

La lettera del parroco percorse a velocità vertiginosa le gerarchie fasciste. Da Roma chiesero perentoriamente al prefetto di Palermo provvedimenti severi: “E’ bene che facciate comprendere all’Arcivescovo, tuttavia riluttante ad allontanarlo dal beneficio parrocchiale, che il carattere e le circostanze del caso esigono una pronta riparazione…”.
Il prefetto scrisse all’arcivescovo di Monreale, monsignor Ernesto Filippi.

L’eccellenza Filippi era in ottimi rapporti con i fascisti, forse aveva sperato di mettere a tacere anche cquesto spiacevole screzio.
Ma screzio non era, perchè nel frattempo i rapporti fra il Fascismo e il Vaticano s’erano andati deteriorando: Mussolini cominciava a far trapelare, sempre più decisamente, le inclinazioni razziste del regime e il Papa severamente ammoniva sulla stoltezza di quelle idee. Bisognava mostrare intransigenza, dura.

L’arcivescovo, per mostrare contegno, fece passare un mese prima di rispondere al prefetto. Nel frattempo s’era sbarazzato del suo scomodo arciprete. Lo comunicò al prefetto con una lettera dove, formalmente difendendo il parroco “signum ad sagittas” da parte di “qualche suo parrocchiano in auctoritate constitutus“, assicurava: Ha rassegnato dietro mio invito le dimissioni dall’ufficio e dal beneficio”.

Don Ancona se ne tornò degradato e impoverito – arciprete senza parrochia – a Castellammare del Golfo, dov’era nato. Prima di partire aveva scritto alla Eccellenza Reverendissima: ” … Vado come un reo e non ho offeso nessuno … Io ringrazio ancora una volta l’Ecc. Vostra Rev/ma e spero che ancora una volta vorrà benedirmi e fiducioso ritorno ai patrii lidi con quegli onori che Balestrate ha saputo tributare a sacerdoti. Auguro sorte migliore al mio successore.” Se un prete ringrazia un altro prete per le benedizioni ricevute, si può sospettare che avrebbe sperato da quello ben altro aiuto …

A Castellammare non rimase molto, i fascisti non s’erano scordati lui: il primo di novembre andarono ad arrestarlo e dopo dodici giorni di carcere partì per il confino. Gli avevano assegnato un anno, da trascorrere in un paesino della provincia di Catanzaro, Gimigliano. Non infierirono, lo mandarono libero la vigilia di Naale, dopo un mese e ventiquattro giorni.

Mentre l’arciprete aspettava che la vendetta fascista facesse il suo corso, a settembre monsignor Filippi era stato proposto dal prefetto di Palermo, Benigni per la nomina, ottenuta, a Grande Ufficiale della Corona d’Italia: “… Durante il periodo delle sanzioni fu l’iniziatore della raccolta dell’oro offerto dalle Chiese e nel 1938 pubblicò una magnifica lettera pastorale sulla missione dell’Italia in Africa Orientale e sull’Impero Italiano. Lo scorso anno, in occasione della inaugurazione della cappella alle case cantoniere di Bellolampo, alla presenza del Duce, per la sua intonazione di colore prettamente patriottico e fascista.”

La proposta prefettizia ha la data del 23 settembre 1938: era già stato pubblicato il “manifesto degli scienziati razzisti” e il governo aveva approvato i primi decreti contro gli ebrei stranieri residenti in Italia.

La guerra civile spagnola aveva provocato in Sicilia almeno un altro perseguitato, forse fu il primo, e con lui il fascismo fu molto più severo. Era un sarto nato a Bronte, abitava a Palermo: Matteo Ferlita, 35 anni quando lo arrestarono a casa sua l’8 settembre del 1936. Gli trovarono, scrisse la polizia politica, una lettera diretta al capo del governo repubblicano spagnolo, in cui chiedeva l’autorizzazione “di organizzare una legione di giovani coraggiosi ed animati dallo stesso grande amore per la libertà, allo scopo di contribuire a battere i ribelli”.

Lui disse che quella lettera non l’aveva mai spedita e, “opportunamente interrogato”, ammise di aver chiesto di essere arruolato nell’esercito dei volontari antifranchisti.

Lo mandarono alle isole tremiti con cinque anni di confino: ci rimase per tre anni, tre mesi e quindici giorni.

Fonti e bibliografia

I documenti citati nell’articolo, da cui sono tratte le frasi tra virgolette, si trovano all’Archivio di Stato di Palermo fondo Prefettura/gab. anni 1935-1940, nelle buste 556 e 623. Le notizie sui confinati durante il periodo fascista i Sicilia, sia quelle generali che quelle relative ad Ancona e Ferlita, sono tratte da un volume, molto grosso pubblicato dall’Archivio Centrale dello Stato, “Il popolo al confino. La persecuzione fascista in Sicilia“.
Chi volesse saperne di più sulla guerra di Spagna, può leggere la classica “Storia della guerra civile spagnola” di H Thomas. Un intenso e bel racconto sulla partecipazione dei siciliani a quella guerra è “L’antimonio” nel libro “Gli zii di Sicilia” di Leonardo Sciascia. I dati sulla conversione delle lire del 1938 in lire attuali sono tratti da una tabella pubblicata dal “Sole/24 Ore“: i pratica, una lira del 1938 equivale a mille lire odierne”

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  1. Castellammare del Golfo: quei “ribelli” rimossi – Diarioelettorale Weblog

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