1° gennaio 1862 – Esercizio di contabilità funebre (3)

ovvero quanto pesano i morti

Nella notte tra il 2 ed il 3 gennaio 1860 giunsero in vista della marina di Castellammare del Golfo le due navi da guerra cariche di truppa al comando del Maggiore Generale Pietro Quintini.

Era costui uno “specialista” in repressioni, promosso generale dopo aver condotto una feroce azione vittoriosa contro le truppe borbonico-clericali di Scurcola Marsicana.
Nei giorni 22 e 23 gennaio del 1861, Scurcola era stata teatro di gravi fatti di sangue tra truppe borboniche comandate dal Generale Luverà, impegnate a saccheggiare il paese, e le truppe del nuovo stato unitario inferiori di numero.
Una volta arrivati in aiuto delle truppe unitarie due squadroni di cavalleria, i rapporti di forza si invertirono e dopo duri scontri combattuti casa per casa, le forze dello stato unitario ebbero il sopravvento.
Parte dei borbonici catturati furono passati immediatamente per le armi. Altri, ben 336, furono fatti prigionieri e di questi ben 89 furono fucilati prima dell’arrivo dell’ordine di sospendere le esecuzioni.

Ritornando alle vicende di Castellammare si riporta quanto scrisse nel suo supplemento del 5 gennaio il “Giornale Officiale di Sicilia”:

Le truppe imbarcate sul Monzambano arrivarono alle 4 della mattina del 3; ma lo sbarco non si operò che di giorno. E’ falso che da’ tumultuanti si fosse cercato di impedirlo con due piccoli pezzi di artiglieria. Le truppe misero piede a terra senza opposizione. Avanzatesi nel paese furono aggredite a fucilate; si rispose vivamente; ridottisi su per la sovrastante montagna i tumultuanti ne furono sloggiati con alcuni colpi di cannone tratti dal Monzambano e dall’Ardita. Nello scontro avuto fu a deplorare acerbamente la morte del bravo capitano Mazzetti, e quella di un sergente de’ bersaglieri, oltre le ferite toccate ad un ufficiale e a taluni soldati.“.

Riprendendo allora il nostro conto da buoni ragioneri della morte, annotiamo ulteriore due morti dalla parte delle forze dell’ordine mentre per l’intera giornata, tra gli insorti se ne conteranno sei, numerati progressivamente dal nove al tredici nel “Liber defunctorum” della Matrice di Castellammare relativamente al giorno tre del mese di gennaio 1862.
E’ da notare che il progressivo dodici comprende due nomi, quello di Catalano Angela di anni 5O, vedova di Giuseppe Di Bona e di Romano Angela di anni 9 circa.

Sempre il “Giornale Officiale di Sicilia” scrive:

Il battaglione di Calatafimi era intanto arrivato in Alcamo verso il mezzogiorno del 3 non avendo preso cibo ne riposo, dovè fermarsi ivi alcun poco; e partitosi non prima delle ore 2 e mezza p.m. arrivava a Castellammare presso alle ore 6. Il sotto-Prefetto marciava colla vanguardia di quel battaglione. Giunto in Castellammare, trovò l’ordine già ristabilito, ordinato il disarmo; seppe inoltre che sei dei colpevoli, presi colle armi alle mani e in atto di far fuoco contro le truppe furono fucilati;”.

Su questo passaggio, quello della fucilazione scrive Salvatore Costanza ne “la Patria Armata” fornendo una sintesi di qual fosse all’epoca dei fatti il quadro delle sensibilità correnti a proposito di diritti civili, a quella data, nel neonato stato unitario:

Cosi veniamo all’oscuro episodio della fucilazione dei ribelli comandata dal generale Quintini. Le fonti ufficiali non dànno riscontri affidabili sull’evento, che, anzi, per lo piu ignorano. Nessun riferimento ad esso, sia pure indiretto, si trova infatti nei volumi che raccolsero i verbali del dibattimento alla Corte d’Assise di Trapani. Il generale Quintini, nella sua deposizione dinanzi alla stessa corte, non ne fa cenno. Il governo, che doveva rispondere ad un’interpellanza del depu­tato D’Ondes Reggio, dichiarò di non aver avuto tempestive informa­zioni al riguardo. Né, in seguito, volle comunque soddisfare alla richiesta dell’interpellante, al quale era giunta notizia di esecuzioni sommarie di prigionieri: «Intanto ho letto nel giornale uffiziale (non parlo di ciò che narrano altri giornali) che vi furono cinque, se non erro, i quali, presi colle armi alla mano, furono fucilati». Il ministro Miglietti negò soltanto che i fatti accaduti a Castellammare potessero essere considerati «come norma del modo col quale la giustizia si amministri in Sicilia»: «Se nell’impeto non hanno potuto i militi reprimere un sentimento, dirò, di giusta ira, in seguito agli immensi danni di cui erano spettatori, non è cosa questa la quale in alcun modo possa essere addotta come argomento che la giustizia sia male amministrata». I deputati ministeriali manifestarono in quella occasione i loro timori per la situazione dell’ordine pubblico nel Sud d’Italia, che risultava eccitato dalla fazione borbonica sempre pronta a sfruttare il malumore della gente. Piu che di formali garanzie di legalità costituzionale, si aveva bisogno in certi casi di concreti atti di energia: «Io, o signori ­ confessò Paolo Paternostro, suscitando entusiastiche approvazioni della sua parte politica -, non desidero certo di trovarmi in simili casi; ma, se mi ci fossi trovato, state sicuri che avrei pensato poco alla stretta legalità, poco alle future osservazioni del deputato D’Ondes, ed avrei fucilati, senza misericordia, quei feroci perturbatori dell’ordine». Proposito davvero iniquo per un tutore dei diritti statutari perché D’Ondes Reggio non potesse ribattere con arguta solennità: «Quanto poi a quello che l’onorevole Paternostro ha manifestato che avrebbe voluto adoperare se si fosse trovato al potere, io non gl’invidio la gloria di quello che avrebbe fatto, ma so che non l’avrei mai fatto io, civile europeo».

Con una certa qual certezza può affermarsi essere stato uno dei fucilati il sacerdote Benedetto Palermo, di lui scrive sempre Salvatore Costanza:

Che Benedetto Palermo (1818-1862) appartenesse alla fazione capeggiata dal notaio Di Blasi è provato da testimonianze diverse: il rapporto del capitano Almeida sui «partiti» di Castellammare, non­ché una lettera del presidente del Municipio, Giuseppe Marcantonio, indirizzata il l° dicembre 1860 al governatore della provincia, Enrico Parisi, per informarlo sulla condotta del sacerdote. Quest’ultimo era stato incluso dall’arciprete del paese in una tema di nomi proposti al vescovo di Mazara per l’elezione di un cappellano. Definito «uomo perverso, scandaloso, falso testimone, omicida, reazionario, nemico del nostro libero Governo, satellite cagnotto, e spia infame del Borbone», il sacerdote Palermo era già stato sottoposto a «stretta sorveglianza governativa», dopo aver subito una breve carcerazione su ordine del dittatore.
Fu trovato, dopo il conflitto del 3 gennaio ai Fraginesi, con le armi in pugno. Tentò di far valere le proprie ragioni, ma «comprovato giuridicamente che fu preso in azione» fu fatto fucilare. È quanto riferisce Calandra, il quale si sofferma pure con impietosa precisione sui momenti della tragica fine del sacerdote. Purtroppo è l’unica testi­monianza che ci resta, con quel sottofondo passionale che costituisce il ricordo, ancora pungente, di un cutraru colpito nelle sue sostanze e minacciato nella vita: «Il prete brigante e compagni si battevano d’una pagliaia distante due tiri a palla di fucile da caccia da Castellammare, ed un tiro dall’ultimo braccio di questa strada rotabile che porta ai Fraginesi, ov’erano alquanti soldati. L’egregio capitano sig. D. Emesto Bosisio ordina di attaccarli alla baionetta, e cosi facendo i bersaglieri vider fuggire i ribelli, dei quali uno cadde morto sull’istante, un altro ferito restò prigioniero, un secondo ferito al piede corse, due altri, tra i quali il Sangiorgio, si salvarono ancora colla fuga, ma il sesto, era il sacerdote, venne arrrestato. Fattagli perquisizione gli si rinvennero due gilé con le tasche piene di cartucce, una pistola, oltre il fucile che aveva in mano. Tradotto dinanzi il generale Quintini, voleva discol­parsi, ma comprovato giuridicamente che fu preso in azione, scarican­do contro la truppa, il generale ordina: Dieci passi, e fucilatelo.

L’episodio raccontato dal Calandra permette di definire con sufficiente certezza che uno dei fucilati fu il sacerdote Benedetto Palermo e che nella circostanza un altro dei ribelli venne ucciso nello scontro a fuoco un terzo è ferito e catturato e di un quarto, pur ferito non conosciamo la sorte, ovvero se fu fatto prigioniero o meno.

Non accenna il Calandra alla cattura e/o all’uccisione di donne.

Per certo dal “Liber defunctorum“, “die tertia ianuarii” del 1862 i morti, sei, tutti dalla parte dei ribelli, o quantomeno morti tutti “interfecti a militibus Regis Italiae”, sono:

9) Benedetto Palermo (anni 46) di Leonardo e di Maria Pilara
10) Marco Randisi (anni 45) di Francesco e Vincenza Messina, sposato ad Antonia Lombardo
11) Antonino Corona (anni 70) fu Bartolomeo, nato a Gibellina e sposato a Paola Coci
12) Catalano Angela (anni 5O), vedova di Giuseppe Di Bona
Romano Angela (anni 9) di Pietro e Giovanna Pollina
13) Calamia Angela (anni 70) fu Pietro e Margherita Gallo, sposata a Pietro Colomba

Quanto scritto dal “Giornale Officiale di Sicilia” appare quantomeno impreciso laddove è scritto di sei fucilati in quanto di almeno uno sappiamo non essersi trattato di morte per fucilazione, ma di morte in un conflitto a fuoco:

…sei dei colpevoli, presi colle armi alle mani e in atto di far fuoco contro le truppe furono fucilati; di costoro tre non vollero palesare il loro nome, uno fu un triste prete imbran­catosi fra quella sanguinaria ribaldaglia“.

Si noti poi che la superiore frase è quella da me personalmente letta ed esattamente registrata, da una copia del Giornale Officiale di Sicilia alcuni decenni fa e conservata presso la Biblioteca Nazionale di Palermo, e che altri (Salvatore Costanza nella nota 363 di pag. 195 de “La Patria Armata”), in altra copia, conservata probabilmente in altra emeroteca, hanno potuto leggere:

Sei dei colpevoli, presi colle armi alle mani c in atto di far fuoco contro le truppe, furono trucidati; tre di costoro non vollero palesare il loro nome, uno fu un triste prete imbran­catosi fra quella sanguinosa ribaldaglia.“.

Come si nota la frase non è la medesima, oltre all’irrilevante inversione; “di costoro tre non vollero palesare” con la frase “tre di costoro non vollero palesare” si notino invece i termini usati che non sono i medesimi; “sanguinosa” per “sanguinaria” e sopratutto “trucidati” per “fucilati“.

Cosa può essere accaduto ?

E’ ipotizzabile che l’edizione del 5 gennaio 1860 del Giornale Officiale di Sicilia, sia stata “ribattuta” più volte, con limature successive in funzione del messaggio che si voleva far arrivare e di quale tra i possibili comportamenti reali delle autorità preposte al rispetto dell’ordine pubblico si ritenesse più conveniente comunicare per far risaltare l’ autorevolezza delle autorità di governo.

In particolare propenderei per la tesi che il termine originario “trucidati” sia stato sostituito in seguito con il termine “fucilati” perchè ritenuto (per le sensibilità dell’epoca) più efficace, nel senso che questo era ciò che l’opinione corrente si aspettava dal governo, ma che poi viste le reazioni in sede di dibattito parlamentare si sia preferito non insistere oltre su questa linea.

Dice sempre Salvatore Costanza: “non c’è neanche nei documenti giudiziari e di polizia, alcuna testimonianza, diretta o indiretta, delle fucilazioni del 3 gennaio“.

Il “Liber defunctorum” della Matrice di Castellammare come si è visto ci consegna il nome di un’altra vittima del 3 gennaio 1862, questa l’annotazione ed anche tutto ciò che sappiamo di questa ragazza:

«Romano Angela filia Petri et Joanna Pollina consortis. Etatis suae ano 9 circa hodie hor. 15 circa in Castriadmare. Animam Deo reddidit absque sacramentis in villa sicdicta della Falconera quia interfecta fuit a militibus Regis Italiae. Ejus corpus sepultum est in Campo Sancto novo».

Da tale annotazione un solo fatto è certo che Angela Romano è morta quel giorno e che la causa della Sua morte sia stata il fuoco dei militi dell’esercito regio italiano.

Tutto il resto che è stato costruito a partire dalle superiori due righe, sul come e sul perchè della Sua morte, in assenza di ulteriore documentazione probante, è solo la misura di quanto la pochezza e la perversione umana possa spingersi fino ad abusare a distanza di 150 anni del cadavere di una povera disgraziata, agitandolo ipocritamente a mo’ di clava ed in funzione antiunitaria.

Tutto ciò è da ritenere che sia stato possibile ove tale miseria morale nel suo cammino non ha trovato che ignoranza e assenza di valori sparsi a piene mani ma mascherati dal pietismo ipocrita.

(continua)

Gli avvenimenti ed il conto dei morti del 1° gennaio stanno qui quelli del 2 gennaio qui

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